La notizia del tentativo di fuga di un ospite e della sfiorata tragedia, riportata da diversi apprezzati quotidiani, merita di essere commentata ben al di là di ogni eccezione circa la fedeltà della ricostruzione: e più ancora, in quanto Psichiatra Responsabile di quelle strutture, sento il dovere di rendere a tutti informazioni preziose circa le nostre realtà ed il nostro lavoro. Nelle strutture residenziali nate dopo la legge Basaglia, l’ospitalità riservata ai malati si intende protesa al reinserimento dei nostri pazienti nella società dei “sani”: cancelli aperti, libertà di movimento e volontarietà del ricovero sono le pietre angolari del principio applicato della non emarginazione. I pazienti vengono ri-abilitati: si tenta di restituire loro, letteralmente, le abilità che avevano guadagnato-spesso più faticosamente di quanto non sia stato possibile per noi altri-prima di ammalarsi; vengono aiutati a socializzare tra loro e con l’ambiente e questo impone una mediazione a volte difficoltosa, altre volte frustrante, altre ancora fallimentare.
Le problematiche complicazioni, gli inevitabili incidenti, le imprevedibili emergenze sono, nel nostro lavoro, all’ordine del giorno: potremmo serrare i cancelli, sorvegliare a vista i malati, sedarli quando l’eccitamento li rende più difficili da gestire. Ma abbiamo scelto di rinunciare alle nostre sicurezze ed assumerci la responsabilità di giocare a viso aperto la nostra partita: con il rischio di perderla, per il gusto di non arrenderci prima del fischio d’inizio. Tanto equivale ad imporre alle nostre carriere professionali un enorme rischio: la società dei “sani” aveva deciso di tenere lontani i malati, ed ancora oggi è pronta, al primo incidente ( cosa importa che si tratti di un paziente lasciato libero di andare al bar a prendere un caffè che si renda molesto chiedendo sigarette ai passanti, di un suicidio, o di un complimento sboccato da parte di uno dei nostri ragazzi) a reclamarne l’isolamento dal Mondo, a pretenderne l’alienazione ed a protestare l’inadeguatezza dei medici e degli operatori.
Il clamore generato dalla vostra pubblicazione della notizia – per la cronaca: il ragazzo sta bene, è scivolato da un’altezza risibile ed il suo unico ricordo dell’episodio è un fastidioso ma non drammatico indolenzimento delle terga che hanno urtato una pianta – si è esteso al gruppo dei nostri pazienti. Uno di loro, in “libera uscita”, ha acquistato il giornale e diffuso l’articolo agli altri: il gesto dimostrativo del loro compagno di avventure, compiuto per richiedere attenzioni, si è trasformato rapidamente in guadagno di fama, onore e disonore delle cronache o tragedia cruenta, a seconda delle interpretazioni.
In barba alla consuetudine ed alle usanze del sistema, che vogliono i pazienti più problematici prontamente condotti, specie dopo un gesto del genere, in strutture a più intenso regime assistenziale (fuori nomenclatura: cliniche psichiatriche e reparti ospedalieri per le urgenze) abbiamo riaccolto, dopo gli accertamenti del caso, il nostro paziente in comunità: che ne sarebbe di noi, se il tentativo di aiutarlo senza “sbatterlo in manicomio” (non si può fare, lo sappiamo: per fortuna i manicomi sono aborriti ed aboliti, eppure la vulgata e l’opinione non ne cancellano l’esistenza come categoria del “non luogo per i men che uomini”) fallisse? Finiremmo sulle prime pagine come il medico trascurato col senso di onnipotenza, l’amministratore avido di guadagni e la psicologa distratta?
Chi scrive non è certamente responsabile delle emozioni di chi legge: né mi sfugge, tuttavia, gradirebbe di condizionarle. Ebbene, quando si scrive di malattia mentale è forse richiesta una sensibilità altra da quella cui si attinge nella narrazione di guerre e sport. Quella sensibilità – che ai redattori degli articoli già pubblicati e ai loro colleghi non fa difetto – potrebbe, ne sono certo, trovare rinvigorente nutrimento se volessero accettare un nostro invito: potrebbero essere nostri ospiti al festival cinematografico- kermesse annuale, ormai giunta alla decima edizione, organizzata e gestita a gradimento dei sani e dell’intero paese dai nostri “matti”- o in occasione di una delle nostre mostre di fotografie; potrebbero decidere, se lo preferissero, di approfittare di una bella giornata per prendere un caffè a Paliano, nel bar che i nostri ragazzi a breve apriranno in Paese; non avessero il tempo per venire fin quassù, li incontreremo magari al mare, o in montagna, dove coi nostri pazienti trascorriamo qualche giorno di vacanza a cavallo o in spiaggia: saranno stupiti di scoprire che nessuno di noi lascia cicche sulla spiaggia, intimidisce i vicini di ombrellone né disturba il meritato riposo degli altri. Ogni giorno, senza attendere le occasioni “speciali” e la loro temibile declinazione retorica, potranno essere nostri ospiti in struttura e toccare con mano il lavoro dei pazienti e con i pazienti per riprendere in mano le loro vite. Vorremmo saperli vicini, approfittare del loro prezioso aiuto per diffondere, oltre il nostro pur aperto cancello, la cultura dell’inclusione: o almeno sperare di non dover più giustificare a nessuno il diritto dei malati alla libertà.
Gianluca Mauro, Medico Psichiatra
Enzo Prisco, Amministratore Johnny & Mary